Nonostante abbia goduto di reiterati
passaggi televisivi (e sia uno dei miei preferiti tra i film di Quentin
Tarantino), “Death proof – A prova di morte” non è tra le pellicole più note
del regista di Knoxville.
Ma facciamo una doverosa premessa; negli
Stati Uniti degli anni '70, a proposito di generi cinematografici, c'erano
posti dove ci si poteva sbizzarrire a piacimento: i Grindhouse. Erano
sale cinematografiche dove si proiettavano i b-movies dell'epoca, pieni zeppi
di sesso e violenza; film che appartenevano a generi tipici di quegli anni come
exploitation e black-exploitation, arti marziali, spaghetti western, erotico e
così via. Alcune di queste sale presero l'abitudine di attirare spettatori
proiettando due film in sequenza al costo del biglietto di uno solo.
Era mai
possibile che, nella sua ossessione citazionista, Quentin Tarantino trascurasse
una fonte d'ispirazione del genere?
“Grindhouse”
uscì nelle sale americane e inglesi nella primavera del 2007; era uno spettacolo
di tre ore composto da due film in sequenza: uno di Tarantino e l'altro del suo
degno compare Robert Rodriguez.
Devo
ammettere di avere un debole per Quentin! Mi piacciono il suo amore sconfinato
per TUTTO il cinema, la capacità di sorprendere lo spettatore, il talento
innato per costruire storie e, soprattutto, la capacità di raccontarle usando
tutti i mezzi a disposizione.
Le
immagini certo, ma anche il commento musicale, il modo straordinario con cui
riesce a caratterizzare i personaggi e i dialoghi fulminanti: anche quando usa
in modo un po' troppo enfatico la parola “fuck”, i dialoghi di Tarantino stanno
al cinema come quelli di Elmore Leonard stanno alla letteratura poliziesca (e
se non conoscete i libri di Leonard ve li consiglio)!
Mi
piace persino il modo candido e fanciullesco con cui confessa di rubacchiare
idee da film del passato!
Nella
sua incessante opera di rivisitazione dei generi cinematografici Tarantino ci
trasporta, con “Death proof - A prova di morte”, in un mondo di bulli, pupe e rombanti
auto sportive sempre con l'acceleratore a tavoletta, citando i poliziotteschi
all'italiana e film come “Punto zero”, “Violenza sull’autostrada” e “Zozza
Mary, pazzo Gary” anche se, probabilmente, la principale fonte di ispirazione è
“Faster pussycat. Kill! Kill!” di Russ Meyer.
“A
prova di morte” è a sua volta diviso in due parti distinte; la seconda è
godibilissima e ci accompagna all'atteso finale con tanto di inseguimento,
citazione del tema musicale di “Italia a mano armata” di Franco Micalizzi e
scambio di ruoli, con il cacciatore che diventa preda.
Ma la
prima parte vede, secondo me, Tarantino (che appare in versione barista, dietro
al bancone a riempire bicchieri) al suo meglio, con tutti i “mi piace” che ho
elencato prima e che, in barba ad ogni convenzione, gira per venti minuti buoni
delle scene ambientate in un bar, fatte solo di musica, dialoghi fulminanti, facce
e corpi senza il minimo cedimento di ritmo narrativo.
E' un
crescendo che comincia con la giovanile spensieratezza della dj Jungle Julia e
delle sue amiche e termina con l'esplosione di follia misogina
dell'indimenticabile Kurt Russel-Stuntman Mike, una figura finalmente originale
nell'inflazionato mondo dei serial killer!
Il
freddo, cerebrale, affascinante Hannibal Lecter de “Il silenzio degli
innocenti” trova in Stuntman Mike il suo rustico alter-ego che, in luogo di
divorare carne umana, preferisce abbuffarsi di golosità tex-mex.
E se il cannibale di Baltimora riusciva ad
entrare nel cervello delle persone fino a desiderare di mangiarselo, il
divoratore di nachos di Austin, con la sua Chevrolet Nova color tenebra, entra
nei corpi di quattro giovani donne come nessuno mai nella storia del cinema era
riuscito a fare.